mercoledì 19 dicembre 2012

On the High Line


New York. West 23rd Street. 

In una poesia di Carl Sandbourg, un bambino chiede al padre "Daddy, what is the moon suppose to advertise?". Il poeta statunitense degli anni 30 denunciava così la nascente società del consumo, che trasformava qualsiasi bene in oggetto di pubblicita’ e attrazione. 
Oggi viene da farsi la stessa domanda quando, tra gli scorci di cielo lasciati liberi dagli skyscrapers di New York, la luna si confonde con una qualsiasi insegna pubblicitaria.  E una mela non e' solo il simbolo della città. Nelle fattezze Macintosh, adorna le piazze come un monumento, con lo stesso potere attrattivo dell'albero natalizio del Rockefeller Center. Le luci di Times Square rendono magica anche l’insegna di un’azienda, Ernst and Young, e illuminano la sera come fosse giorno.
Il primo degli spettacoli che la citta’ offre e’ quello di se stessa.
Il ponte di Brooklyn ne fa ammirare lo skyline. Dai palazzi scuri del financial district fino all'Empire State Building, la citta è così bella da sembrare irreale e inafferrabile, proprio come l'ennesima diva di Hollywood.
Poi ci sono luoghi in cui la diva si nasconde, celata tra vecchie fabbriche e gallerie d'arte. Nel quartiere di Chelsea, i palazzi sono più bassi, sui marciapiedi i passanti camminano calmi, senza essere trascinati dal flusso della folla che spinge ad andare. Se si percorre l'High Line, vecchia linea ferroviaria sopraelevata oggi riconvertita in spazio pubblico, si può continuare a camminare sospesi a dieci metri di altezza, tra piante selvatiche e balaustre art decò. 
Sin dagli anni 30 era stata utilizzata per trasportare merci e cibo alle fabbriche dei quartieri a sud ovest di Manhattan, partendo dalla 34ma strada per arrivare alla Gansevoort Street nel West Village. Abbandonata nel 1980, è rimasta per anni relitto e testimone di ferro del passato industriale di New York. Che gli abitanti del quartiere, così come l'allora sindaco Rudolph Giuliani, volevano fosse distrutto. 
Ma, nel 1999, l'associazione "Friends of the High Line" si mobilita per impedirne la distruzione, intravedendone il potenziale  in un'area che a mattatoi e fabbriche stava sostituendo boutique e ristoranti alla moda. Robert Hammond e Joshua David, fondatori dell'associazione, nel 2003 conquistano il benestare del neo eletto sindaco Michael Bloomberg, il quale stanzia 50 milioni di dollari per iniziarne i lavori. Il parco viene disegnato dagli architetti Diller Scofidio e Renfro & Field Operations, vincitori di un concorso di architettura bandito per la sua riqualificazione. 
Gli architetti pensano di preservare la natura che spontaneamente si stava impossessando di binari e ringhiere, e di creare, sul percorso della vecchia ferrovia, una strada verde al di sopra di quella asfaltata, a mezz'aria nel cuore di Manhattan. 
Il binario di ferro lungo un kilometro e mezzo, inaugurato nella primavera del 2009, è diventato così  uno dei parchi più innovativi di New York, e forse dell'intero paese. Le colonne di acciaio che prima supportavano binari sorreggono una strada che a volte diventa una piazza e altre ancora un giardino botanico. Lontani dal traffico della città, ma allo stesso tempo in uno dei suoi centri pulsanti, si sorvolano macchine e passanti in un luogo insonorizzato, si incontrano orti nascosti e zone lasciate alla proliferazione spontanea del verde selvatico. Si attraversano ventidue isolati tra edere, gallerie e street art. I graffiti colorati e le scritte pubblicitarie sui muri delle case sembrano indistintamente opere da guardare, e sfiorare da molto vicino. Ci sono musicisti che suonano, molti fanno jogging, altri mangiano o leggono in uno degli spazi in cui il percorso si allarga, e permette ai passanti di sedersi. 
Scalinate di legno scendono a strapiombo quasi sulla strada. Da lì, lo  spettacolo è quello dei palazzi che scorrono sull'asfalto, dei taxi gialli e delle piccole sagome che sfuggono al loro passaggio. In altri punti, lo spettacolo è quello delle rive dell'Hudson, che corrono parallele al percorso dell'High Line, ogni tanto si nascondono tra gli isolati più densi di costruzioni, ma si ritrovano dopo poco. 
Verso la fine del tragitto, lo spettacolo è una sagoma che galleggia sull'acqua, imponente ma placida. E che, a farci caso, è la Statua della Libertà.                                                                             

lunedì 1 ottobre 2012

Tales from India

Love it or leave it.
                                                         

Descrivere l’India non è facile. Che si tratti di un viaggio lungo tutto il sub continente, o di una breve permanenza ai confini di uno dei suoi stati, ogni realtà presenta mille diverse sfaccettature, variegate come le sfumature dei colori, rumorose come le strade della capitale, stridenti come i versi delle mucche che ti camminano accanto.
Descrivere uno stile di vita al suo interno è altrettanto complesso. 
Proverò dunque a descrivere l'evoluzione e i sussulti d'animo di una straniera ivi giunta per caso e fortuna.
Per amare l'India è necessario tempo, pazienza, e tanta fiducia. 
Tempo per abituarsi ai cibi e agli odori speziati che avvolgono tutti i sensi.
La puzza di escrementi di mucca e l'odore di spezie nauseano l‘olfatto. I colori confondono la vista, lucenti sugli abiti delle donne, pastello sulle case, sparsi sulla bancarella di un bazar, maestosi nella natura che irrompe selvaggia anche nel mezzo della metropoli, Delhi. Il curry disgusta il palato, schifato dal retrogusto piccante del coriandolo e del tamarindo che non permettono di distinguere i sapori delle pietanze. I rumori di clacson incessanti e assordanti uniti a versi di animali e catarro di uomini stordiscono l’udito. 
Ci vuole tempo per abituarsi alla vita misera e povera che si materializza davanti agli occhi desiderosi di bellezza, templi e monumenti. Questi ultimi passano in secondo piano se un bambino sporco si attacca costantemente addosso per chiedere cibo e denaro.
Dietro la maggior parte delle foto di turista tra bambini si nasconde sempre un patto, un baratto, uno scambio equo: il primo porta a casa l’immagine di sé tra le piccole generazioni del terzo mondo, i secondi portano a casa il pranzo del giorno.
Ci si confronta con un popolo che si approccia allo straniero in modo ambivalente: da un lato cerca di sfruttarlo, dall'altro sembra accettare da lui sempre tutto, anche quando non vuole. Con un lento e flemmatico inclinamento di capo da destra verso sinistra, dice di “si”. Debole e malinconico autorizza qualsiasi richiesta. Ma più che convinta affermazione,  sembra esprimere rassegnata accettazione. 
Come se non ci fossero mai problemi, e tutto fosse concesso, tutto possibile. 
E infondo viene da pensarlo quando uomini si arrampicano su soffitti e maniglie di autobus come fossero scimmie; quanto scimmie allungano il braccio per accettare la banana che le stai offrendo, come fossero uomini. 
Ciò che accomuna le due specie, è la disinvoltura con cui buttano qualsiasi scarto alimentare per  terra, su quel tappeto artificiale che drammaticamente contamina la natura. 
Eppure, dopo un pò, la tentazione di liberarsi di bottiglie e involucri con un semplice gesto, sfruttando lo spazio del suolo su cui si sta camminando, inizia a impadronirsi del turista. Che la assecondi o no, sarà comunque un primo segnale di adattamento. 
Se ha lasciato passare un pò di tempo senza arrendersi alla diversità, se è stato paziente di fronte all'apparente inciviltà, se ha sopportato la confusione e il frastuono fiducioso che qualcosa sarebbe cambiato, qualcosa effettivamente cambia. 
L’olfatto inizia a essere nutrito da quelle stesse puzze, e a sentire il profumo dei fiori. La vista è appagata dai colori. Il gusto, ormai educato, riesce ad assaporare il thè nello zenzero, le lenticchie nel peperoncino e il formaggio nel tamarindo. I rumori diventano musica per l’udito e si uniscono ai ritmi orientali di flauti e percussioni.
Persino il bambino cambia posizione. Se lo straniero ha superato paure infettive ed emotive, se ognuno sostituisce alla necessità la curiosità, e al posto di soldi e fotografie si scambiano sguardi e gesti, l’abbraccio diventa sincero e rimane dentro le braccia ancor prima che in una foto. 
A quel punto, però, il bambino non se ne vorrà più andare. 
Questo può appagare il cuore, o spaventarlo. Il turista deve decidere se andare avanti per la prossima meta iniziando tutto da capo, o restare. 

Se resterà, la sua evoluzione si sarà compiuta.

lunedì 7 maggio 2012

Ladri di biciclette


Era il 20 giugno del 2011, il mio amico Alan compiva 26 o 27 anni. Un anno prima, per festeggiare, eravamo andati a sentire Devendra Banhart a Villa Ada. Lo ascoltavo per la prima volta e mi chiedevo come avevo fatto fino a quel momento, senza.
In un anno molte cose erano cambiate. Mi ero laureata, e in quel periodo ero una stagista. La routine mi stava stretta, ma per entrarci mi rimpicciolivo. Sognavo di incontrare il mio capo fuori dall'ufficio, somigliava a John Malcovich e mi mostrava il (terzo) mondo dalla stanza di un ministero fatto di fotocopiatrici e pause caffè. Quando finalmente tutto sarebbe finito, avrei goduto del mare. Non di quello di maccarese dei week end, ma di quello pugliese dell'estate.
Quella mattina faceva caldissimo, ed ero bruciata dal sole. Ma il capo, la stanza, la fotocopiatrice, le pause e i caffè impedivano di scoprirsi troppo. Riesumai una gonna lunga e larga verde militare un tempo appartenuta a mia cugina. Era tardi ma la mountain bike che usavo di solito si era giocata le ruote sul lungotevere. A dieci minuti dall'orario di ufficio, osservando il parco bici dell'ingresso non potetti resistere alla tentazione di prenderla: lei, una city bike. Era della mia coinquilina Caroline che l'aveva comprata per utilizzarla solo una volta, alla critical mass. In quel periodo c'era un gran parlare di bici biciclette ciclomotori ciclisti ciclomobilità ciclofficine cicli ricicli. Entravano in casa tra una tesi di architettura e due ragazzi spagnoli che facevano il giro del Mediterraneo in tandem. Caroline assorbiva tutto dalla sua stanza, e negli infusi di thè scioglieva le voglie e i pensieri, che sembrava non condividere ma invece realizzava all'improvviso, per esempio comprando una bici. Poco importava che non l'avrebbe quasi mai sfruttata, era il suo modo di dimostrare che c'era.
Non trovarla non le avrebbe cambiato la giornata, e io la montaì al volo. Si chiamava Montana ed era rossa. Pedalavo in discesa, cercando di sfruttare tutti i pezzi di pista ciclabile intatti nel percorso via antonelli piazza euclide villa glori auditorium ponte milvio Farnesina. Il rincontro mattutino con john malcovich e i pensieri legati a come sarebbe andata la giornata, mi spaventavano e eccitavano insieme. Succedeva ogni mattina ma il lunedì di più. La differenza del 20 giugno 2011 la fece Montana. Sembrava essere fatta per la gonna che indossavo, che trovava spazio nel quadro di una bici femminile, e permetteva alla mia schiena di adagiarsi senza piegarsi.
Era fatta per me, per le gonne, per i lunedì di rincontro, per l'estate.
Col tempo diventò un pò più da battaglia e dunque naturalmente mia. Caroline me la cedette senza parlarne.
Oggi l'ho parcheggiata distratta alla fermata della metro del policlinico. Era un giorno di pioggia, sfide, attesa. Via Regina Margherita era desolata ma il silenzio era pieno di interrogativi, e preannunciava l'arrivo di qualcosa. Chi avrebbe vinto le elezioni presidenziali in Francia ? E in Grecia ? E lo scudetto ?
Tre Paesi Mediterranei hanno votato, gli italiani hanno seguito gli exit poll da Parigi ad Atene, passando per Belgrado. Intorno alle 20:00, la vittoria di Francois Hollande era certa. I socialisti francesi festeggiano a Place de la Bastille il ritorno all'Eliseo. Cambiano le sorti dell'Europa Unita. A est del mare la maggior parte dei Greci ha votato in favore di chi è a lei avversa, in Serbia bisognerà aspettare il ballottaggio. Intanto, negli stadi Italiani si sono giocate due partite cruciali: Juve-Cagliari e Inter-Milan. La seconda determinante per le sorti della prima. Battendo il Milan, l'Inter ha assicurato alla Juve vittoria.
In una giornata del genere, c'era da aspettarselo. Tra juventini, interisti, milanisti, socialisti, greci, francesi, italiani, europeisti, sarkozisti, vincitori, vinti, celebranti, sofferenti, sicuramente qualcuno mi ha fregato la bici.
Addio, Montana. 
Roma, 6 maggio 2012. 

domenica 29 aprile 2012

Tales from India




Nei primi giorni di marzo mi trovo ad Agra. Per le strade c’è qualcosa di diverso. Di solito sono popolate da uomini, animali e qualsiasi essere vivente, tutti insieme liberi e scalzi, espletando spesso i propri bisogni più intimi. In quei giorni, il caos sembrava ripulito da alcune delle sue specie e assumeva un’aria quasi solenne. Si votava. L’Uttar Pradesh, stato più popoloso dell’India, di cui Agra è una delle maggiori città, eleggeva i suoi rappresentanti alla Camera Bassa dei parlamenti regionali.
Dai risciò e dai finestrini delle macchine tutti mostravano con entusiasmo le proprie mani, più nere del nero della pelle. L’inchiostro sull’indice, indelebile per una settimana, dimostra che si è votato e impedisce che lo si faccia una seconda volta. Ma nessuno sapeva dire molto sulla propria preferenza. Se qualcuno aveva scelto il partito della famiglia di Gandhi, quello del Congresso, indicava la faccia del Mahatma su qualsiasi banconota, come se per questa familiarità avesse fatto per certo qualcosa di buono.
Qualsiasi negoziante era fiero di dire che si stesse votando, ma mostrava di conoscere gli dei rappresentati sulle stoffe e i souvenir che vendeva molto meglio dei candidati politici. C’erano più probabilità che fossero i primi a migliorare le sue condizioni di vita, pregandoli e adorandoli, che non i secondi, votandoli.
Sembravano infatti essere le leggi e i valori della comunità e del culto religioso a regolare la vita dei cittadini, a dar loro senso, appartenenza, e anche speranza. I giorni elettorali erano l’interruzione laica di una quotidianità fatta di norme e usanze orizzontali, in cui è forse depositato il vero potere del popolo. In questo senso allora l’India è una grande democrazia. Rimasta impermeabile non solo alla legge ufficiale, ma anche all’ufficialità della legge. Nelle reti che organizzano la società non c’è niente di così formale e rigido che non possa adattarsi alle esigenze contingenti.
Dopo Agra sono giunta a Pushkar, una cittadina del Rajasthan, a ovest dell’Uttar Pradesh. Date le piccole dimensioni, era facile osservare il modo in cui era organizzata la comunità. Quando mi recavo negli uffici, le scrivanie, i computer, e tutto ciò che voleva dare un tono serio all’esercizio, sembrava essere fatto di cartapesta.
Se si entrava nella stazione degli autobus per prenotare un bigliettosi usciva con un posto riservato in un hotel a 1.000 chilometri di distanza; se si voleva comprare la scheda di un telefono si consumava una tazza di tè con l’esercente che consigliava nel frattempo di viaggiare in treno piuttosto che in pullman. Lui poteva cambiare biglietti e prenotarne di nuovi, da quella postazione, con una telefonata.
Con qualche rupia potevo ottenere ciò che volevo. Ma anche ciò che non volevo, né che mi aspettavo. Ero dentro una rete fittisima di relazioni tra autoctoni, stranieri, dei e animali, in cui circolavano, con più o meno efficienza, beni e servizi. Coprendo i buchi di uno Stato e un mercato spesso ancora oggi estranei ai più.
Quando visitavo monumenti di fama nazionale notavo come gli indiani fossero lì non solo per esplorare la propria terra, ma anche la mia. Raramente hanno la possibilità di uscire dal subcontinente, e quando incontrano uno straniero trovano in lui la possibilità di vedere ciò che c’è fuori, di viaggiare.
Vogliono parlarti. Mostrano di conoscere il Paese a cui appartieni elencando i nomi di quelli vicini. “L’Italia? La conosco: Italia, Francia, Olanda, Giappone, Canada”. Come se tutto ciò che non è India faccia parte dello stesso posto, e la posizione geografica non abbia senso.
Vogliono scattarsi una foto con te: indicano la macchinetta che nascondevano tra le mani, la porgono al proprio amico affinchè fotografi, timidamente si avvicinano, quasi mai ti abbracciano, sorridono, sorridi e click. Quei luoghi lontani e inarrivabili fisicamente, diventano così raggiungibili, in un momento, con uno scatto. Tornati a casa, mostreranno ai parenti di esservi stati.
La terra delle promesse diventa così la terra del compromesso, in cui tutti gli abitanti si sentono in diritto di approfittare e ricavare qualcosa dal semplice fatto che si stia occupando il loro suolo. Sembra che ognuno di loro, inconsapevolmente, porti dentro di sé la coscienza collettiva di un popolo già sfruttato abbastanza. Per continuare a viaggiare, bisogna pagare pegno.





venerdì 6 gennaio 2012

Tra mozzarella y the çay

Istanbul. 
Turchi caronti traghettano cittadini e turisti da un lato all'altro della città. Nelle giornate di nebbia, il limite tra cielo e mare è impercettibile, i minareti scompaiono nella foschia, nel grigio si intravede qualche gabbiano circondare la Torre Galata, mentre il muezzin richiama alla preghiera; in quelle di sole, le cupole brillano in uno skyline fatto di moschee e tetti, alberi spogli e torri, galleggiando sullo stretto del Bosphoro al suono del sacro richiamo. In questo mare si incontrano Europa e Asia, Mar Nero e Mar della Marmara. E un pò di Mediterraneo. Dopo dieci mesi, 12000 km e tante storie da raccontare sono giunti anche Luis e Mercedes, i giovani ciclisti partiti quasi un anno fa da Siviglia con un tandem e un sogno: unire a pedali le città del Mediterraneo, far riemergere sulle sponde del mare il senso della comune appartenenza.
E qui, sul Bosphoro, li ritrovo.
Con emozione, dubbi e tristezza li avevo lasciati quattro mesi fa dall'altro lato, a Bari, con volti abbronzati e gambe scoperte, bevendo birra e mangiando panzerotti, quando io iniziavo a parlare spagnolo e loro ormai padroneggiavano la lingua italiana. Adesso siamo più bianchi e più coperti, spesso si parla inglese, si sorseggia the çay a qualsiasi ora del giorno, si mangiano doner kebab e cibi speziati. Finita l'estate, passato l'autunno e arrivato l'inverno, dopo aver attraversato la costa adriatica, varcato il confine italiano, pedalato per i Balcani e la Grecia, tante cose sono cambiate.
La crisi economica europea a nord e le rivolte arabe a sud del mare hanno fatto cambiare governi e crollare dittatori. Nel loro Paese, la Spagna, i cittadini hanno scelto un nuovo leader, mentre nel mio, in Italia, il cambio non è stato frutto di una scelta popolare ma di una decisione tecnica presa a metà tra banche e istituzioni. In Libia un dittatore è stato ucciso. In Tunisia e Egitto due dittatori si sono dimessi e per i loro successori si è votato. Nel primo caso si è trattato delle prime elezioni libere dopo vent'anni, nel secondo si continua a manifestare sanguinosamente. Un pò più a est, in Siria, un altro dittatore resiste e contro di lui la popolazione è ormai militarmente organizzata e continua a scontrarsi con le forze di governo. Si chiudono così le porte di un Paese impenetrabile. E se gli scontri non cessano di produrre morti, che a dicembre si stima essere più di cinquemila, come poter pensare di attraversare anche questo confine ? Un tandem è solo un tandem, e non un osservatore internazionale.
Eppure osservare è una delle attività principali di Luis e Mercedes. Osservano i paesaggi cambiare, dal caos della costa Italiana all'ordine turistico di quella Croata, fino ad arrivare alla desolazione di città albanesi che sembrano essere sempre in guerra. Osservano i caratteri della gente mutare, e confrontano la quasi invadente ospitalità italiota a quella più diffidente ma sempre calda del popolo montenegrino. Osservano la povertà e l'interazione tra cooperanti internazionali e popolazione locale. Osservano la mano dell'uomo che distrugge la bellezza naturale e costruisce, ma apprezzano la natura intatta dove vi sono paesaggi sterminati e pochi centri urbani. Qui è difficile incontrare gente, allora familiarizzano con altri ciclisti, ognuno percorrente la propria avventura, chi dalla Francia alla Turchia da solo, chi con la famiglia per tutti i Balcani. Osservano l'evoluzione dei processi storici. In Grecia il turco è visto come nemico e della millenaria tradizione classica è rimasta intatta quella militare molto più di quella artistica. Eppure, nelle case si può danzare il rembetiko greco che richiama i suoni della danza sivigliana e che li aiuterà ad approcciare quella turca.
Di musica in musica, lasciano la Grecia, attraversano le due città militarizzate al confine di Evros, e approdano in Turchia. Qui, a Istanbul, tutto si ricongiunge. Il Mediterraneo al Mar Nero, il passato dell'Impero Romano d'Occidente a quello d'Oriente, la storia andalusa a quella ottomana.
La sorella di Luis, una coppia di amici arrivati dalla Svizzera, e io, a loro.
La casa dove abitiamo è anche una scuola di lingue in cui un'altra giovane coppia, Tugrul e Ozge, da lezioni di inglese e spagnolo. In cucina si sorseggia thè, in salotto si praticano dialoghi bilingue di giorno e si balla la sivigliana, la taranta e il sirtaki di notte. Tra un negozio vintage all'ultimo grido di Beyoglu e la quiete meditativa di una moschea di Sultan Ahmet, tra il caos di un bazar e la raffinatezza di un museo di arte contemporanea, la cultura mediterranea si arricchisce di un patrimonio che è insieme occidentale, orientale, europeo, asiatico, arabo. Troppo grande e ricco perchè il viaggio di Luis e Mercedes si fermi.
Anche se le ultime notizie non fanno pensare alla possibilità di attraversare la Siria e dall'ambasciata il divieto si fa ufficiale, con l'aiuto della famiglia turca e la fiducia di sempre si organizzano e decidono di adattarsi al cambiamento. Che le due ruote diventino quattro per esplorare la Turchia, e che si imbarchino in un aereo per volare sulla Siria, atterrare in Giordania, Egitto, Tunisia, e proseguire pedalando.
Li osservo mentre organizzano il viaggio in Turchia. Davanti alla cartina sorseggiamo l'ennesimo çay . Tugrul indica luoghi da visitare, e pensa agli amici che nelle varie città potrebbero ospitarli. Mercedes appunta tutto sulla sua agendina, Luis si interroga su tempi e kilometri da percorrere. Cerco di immaginare i nuovi meravigliosi luoghi che li attendono. Egeo, Anatolia, Cappadocia.
Ancora una volta sul mare, ancora una volta triste di lasciarli, li saluto. Ma posso portare buone notizie a chi mi chiede di loro. La famiglia è unita, i viaggiatori pronti al cambio. 
Nella macchina come nel tandem, nella stiva di un aereo come nelle due ruote, viaggerà ancora la voglia di osservare, conoscere, scoprire, addentrarsi in ciò che rende il Mediterraneo così affascinante: la diversità e lo scontro. 
Superandone le difficoltà per farne emergere ricchezza e bellezza.