domenica 29 aprile 2012

Tales from India




Nei primi giorni di marzo mi trovo ad Agra. Per le strade c’è qualcosa di diverso. Di solito sono popolate da uomini, animali e qualsiasi essere vivente, tutti insieme liberi e scalzi, espletando spesso i propri bisogni più intimi. In quei giorni, il caos sembrava ripulito da alcune delle sue specie e assumeva un’aria quasi solenne. Si votava. L’Uttar Pradesh, stato più popoloso dell’India, di cui Agra è una delle maggiori città, eleggeva i suoi rappresentanti alla Camera Bassa dei parlamenti regionali.
Dai risciò e dai finestrini delle macchine tutti mostravano con entusiasmo le proprie mani, più nere del nero della pelle. L’inchiostro sull’indice, indelebile per una settimana, dimostra che si è votato e impedisce che lo si faccia una seconda volta. Ma nessuno sapeva dire molto sulla propria preferenza. Se qualcuno aveva scelto il partito della famiglia di Gandhi, quello del Congresso, indicava la faccia del Mahatma su qualsiasi banconota, come se per questa familiarità avesse fatto per certo qualcosa di buono.
Qualsiasi negoziante era fiero di dire che si stesse votando, ma mostrava di conoscere gli dei rappresentati sulle stoffe e i souvenir che vendeva molto meglio dei candidati politici. C’erano più probabilità che fossero i primi a migliorare le sue condizioni di vita, pregandoli e adorandoli, che non i secondi, votandoli.
Sembravano infatti essere le leggi e i valori della comunità e del culto religioso a regolare la vita dei cittadini, a dar loro senso, appartenenza, e anche speranza. I giorni elettorali erano l’interruzione laica di una quotidianità fatta di norme e usanze orizzontali, in cui è forse depositato il vero potere del popolo. In questo senso allora l’India è una grande democrazia. Rimasta impermeabile non solo alla legge ufficiale, ma anche all’ufficialità della legge. Nelle reti che organizzano la società non c’è niente di così formale e rigido che non possa adattarsi alle esigenze contingenti.
Dopo Agra sono giunta a Pushkar, una cittadina del Rajasthan, a ovest dell’Uttar Pradesh. Date le piccole dimensioni, era facile osservare il modo in cui era organizzata la comunità. Quando mi recavo negli uffici, le scrivanie, i computer, e tutto ciò che voleva dare un tono serio all’esercizio, sembrava essere fatto di cartapesta.
Se si entrava nella stazione degli autobus per prenotare un bigliettosi usciva con un posto riservato in un hotel a 1.000 chilometri di distanza; se si voleva comprare la scheda di un telefono si consumava una tazza di tè con l’esercente che consigliava nel frattempo di viaggiare in treno piuttosto che in pullman. Lui poteva cambiare biglietti e prenotarne di nuovi, da quella postazione, con una telefonata.
Con qualche rupia potevo ottenere ciò che volevo. Ma anche ciò che non volevo, né che mi aspettavo. Ero dentro una rete fittisima di relazioni tra autoctoni, stranieri, dei e animali, in cui circolavano, con più o meno efficienza, beni e servizi. Coprendo i buchi di uno Stato e un mercato spesso ancora oggi estranei ai più.
Quando visitavo monumenti di fama nazionale notavo come gli indiani fossero lì non solo per esplorare la propria terra, ma anche la mia. Raramente hanno la possibilità di uscire dal subcontinente, e quando incontrano uno straniero trovano in lui la possibilità di vedere ciò che c’è fuori, di viaggiare.
Vogliono parlarti. Mostrano di conoscere il Paese a cui appartieni elencando i nomi di quelli vicini. “L’Italia? La conosco: Italia, Francia, Olanda, Giappone, Canada”. Come se tutto ciò che non è India faccia parte dello stesso posto, e la posizione geografica non abbia senso.
Vogliono scattarsi una foto con te: indicano la macchinetta che nascondevano tra le mani, la porgono al proprio amico affinchè fotografi, timidamente si avvicinano, quasi mai ti abbracciano, sorridono, sorridi e click. Quei luoghi lontani e inarrivabili fisicamente, diventano così raggiungibili, in un momento, con uno scatto. Tornati a casa, mostreranno ai parenti di esservi stati.
La terra delle promesse diventa così la terra del compromesso, in cui tutti gli abitanti si sentono in diritto di approfittare e ricavare qualcosa dal semplice fatto che si stia occupando il loro suolo. Sembra che ognuno di loro, inconsapevolmente, porti dentro di sé la coscienza collettiva di un popolo già sfruttato abbastanza. Per continuare a viaggiare, bisogna pagare pegno.